Inglese

INGLESE

di Vittorio Messori

(per gentile concessione dell’autore)

tratto da: Emporio Cattolico  

SugarCo Edizioni – Milano, 2006

 

La sensibilità attuale è sin troppo reattiva alle «ingiustizie», vere o presunte che siano. Tanto che si giunge a protestare contro la natura perché avrebbe fatto «diseguali» maschi e femmine; sani e malati; normali e subnormali; bianchi e neri. Dietro molte delle crociate del benpensante di oggi (i femminismi, gli antirazzismi talvolta isterici, la doverosa attenzione, ma che in alcuni si fa ossessione, per la situazione dell'handicappato, ribattezzato - grottescamente - «diversamente dotato o abile») c'è, a ben guardare, la protesta contro una condizione oggettiva del mondo che, nelle sue leggi misteriose, non si adegua agli schemi della égalité, così come fu immaginata dagli utopisti dell'illuminismo. Non vi è parola, forse, più esecrata dalla vulgata moderna di «privilegio»: si è pronti a smascherarlo e denunciarlo ovunque. Anche quando, in realtà, non c'è.

 

Se questa è la situazione, sorprende che ci sia una macroscopica «ingiustizia», un clamoroso «privilegio» che non suscita alcuna protesta. Alludiamo al fatto che alcune centinaia di milioni di persone parlano e scrivono in quella che per loro è la lingua materna e che tutti gli altri abitanti del pianeta devono affrontare spese e fatica per capire quell'idioma, che è passaporto indispensabile per accedere al lavoro. Si parla, ovviamente, dell'inglese, già da tempo lingua mondiale e ora definitivamente egemone con l’avvento della «Grande Rete », che non a caso chiamiamo net e web).

 

Naturalmente, come tutti coloro che, scrivendo, vivono di parole, sono particolarmente sensibile a questa «ingiustizia»: in effetti, è, oggettivamente, ingiusto che chi scrive in qualunque altra lingua che non sia l’anglo-americano abbia per le sue idee, per i suoi libri, per i suoi giornali un ambito solo locale e debba sperare in una traduzione per raggiungere una dimensione universale. In effetti, scienziati, medici, cultori delle più varie discipline fanno violenza a se stessi (non lo è, forse, esprimersi in quell'altro da sé che è un linguaggio alieno?) e redigono sempre più spesso articoli e libri direttamente nella lingua «imperiale». Strada faticosa per dei cultori di scienze ma addirittura impercorribile per chi, come scrittori e poeti, usa le parole in maniera creativa, in quella dimensione dove ogni traduttore, anche il migliore, non è che un «traditore».

 

Ebbene, invece di denunciare questa «ingiustizia» (per il solo fatto di nascere in un Paese anglofono, un essere umano è privilegiato su ogni altro), opinionisti da giornale e politici abbandonano l'abituale demagogia e ammoniscono che compito dello Stato stesso è far sì che ogni giovane, uscendo dalla scuola, conosca l'inglese. Certo, il mondo ha bisogno di rimediare a Babele, cercando un modo per intendersi. Un tempo, però, l'eguaglianza c'era, poiché le classi colte di tutto l'Occidente comunicavano tra loro in latino. Lingua «morta», dunque non materna per alcuno, così che tutti erano alla pari: fatiche e spese per esprimersi nell'idioma dell'antica Roma gravavano su uno svedese come su un italiano.

 

Allergico come sono a ogni utopismo, mi guarderò dall'associarmi a crociate da militante, confidando in idiomi artificiali, primo tra i quali l'esperanto, a proposito del quale già ho scritto qualcosa (cfr. Le cose della vita). Lo stesso realismo mi fa rispettare le leggi enigmatiche ma cogenti delle vicende umane che, per un complesso singolare di circostanze, hanno fatto sì che il quasi impronunziabile dialetto germanico di marinai e mercanti della remota Inghilterra si sia trasformato nella koinè del mondo contemporaneo. Come dicevo in un frammento precedente, citando la battuta famosa: «è la Storia, bellezza!». E la Storia è piena di ingiustizie e privilegi come questo. Sta andando così, prendiamone atto, concedendoci soltanto il gusto, per quanto sterile, di descrivere la situazione.

 

Ma un simile (e, crediamo, doveroso) realismo potrebbe non valere per quell'ambito religioso, e specificamente cattolico, che più ci sta a cuore. Qui, un idioma «di lavoro» comune sembra indispensabile, se si vuole che la Chiesa conservi il suo carattere di universalità; e tale idioma, a differenza di quanto avviene nella società civile, può essere scelto e deciso dall'autorità centrale. Così come lo fu, per secoli, il latino di cui lo stesso Giovanni XXIII, in un'enciclica dimenticata - anzi rimossa (la Veterum Sapientia, pubblicata alla vigilia del Concilio) perché non in linea con Il mito del suo «progressismo» -, difese il ruolo e la necessità anche come lingua franca.

 

Poiché la scelta della Chiesa attuale sembra quella di non scegliere, la deriva storica farà sì che anche in essa finirà per imporsi l'anglo-americano. Già ce ne sono chiari segni. Questo non sarà, comunque, un esito innocuo; e contribuirà, in ogni caso, all'appiattimento universale sulla prospettiva e la cultura della Potenza planetaria egemone. Non si adotta impunemente una lingua, ciò che si accetta non sono solo parole ma una prospettiva, un modo di guardare alla vita. A meno che... A meno che non ci, si renda conto del problema e, se non altro, si cominci a discuterne.