Figlie di S. Chiara

FIGLIE DI SANTA CHIARA

di Vittorio Messori

(per gentile concessione dell’autore)

tratto da: Emporio Cattolico
SugarCo Edizioni – Milano, 2006

 

 

Mattino del 6 gennaio del 2000. Alle 8 della prima Epifania del terzo millennio cristiano (o dell'ultimo anno dei secondo millennio, se vogliamo accontentare i più precisi ... ), eccomi qua, in un monastero disegnato nel Cinquecento dal Vasari, in una delle città più antiche d'Europa, a partecipare alla messa di una comunità di Clarisse, presenti in questi luoghi dal 1225.

 

Difficile trovare ambiente più consono al mio desiderio di riflettere sulla storia cristiana e sulle possibili vie del suo futuro. Ma sì, difficile davvero cominciare in modo più adeguato una nuova tappa del mio viaggio attorno alla fede, condotto con generi letterari e mezzi diversi, ma con unicità di obiettivo. Quello, cioè, di saggiare la credenza nel Vangelo: con le sue difficoltà, certo, ma anche con le sue ragioni.

 

Questa volta, il progetto che mi propongo è l'incontro con le donne e con gli uomini che incarnano nella Chiesa di oggi carismi spesso antichi, mostrandone - nei fatti prima ancora che nelle parole - sia i problemi che la permanente fecondità. Valeva la pena di iniziare, fra quei tanti carismi che rendono la Chiesa davvero cattolica, con uno in particolare.

 

Quando, nei giorni che trascorremmo insieme per la lunghissima intervista da cui nacque il libro “Rapporto sulla fede”, chiesi al cardinale Joseph Ratzinger quale fosse l'elemento di maggior tenuta e fecondità nella vita religiosa, il porporato non sembrò esitare: «Credo proprio che sia il carisma francescano: è incredibile quanto ancora agisca dopo otto secoli - il lievito di Assisi ».

 

Eccomi, allora, nell'etrusca Cortona, tra Arezzo e il Trasimeno, giusto ai confini con l'Umbria, a conversare con un’autorevole erede attuale di quel francescanesimo: madre Chiara Stucchi, cinquant'anni, poco più di venti di vita monastica. In effetti, aveva trent'anni quando si presentò, come postulante, in un monastero dell'Ordine fondato dalla santa compagna di Francesco. Milanese, di buona famiglia borghese, militante a sinistra, Chiara si laureò in Lingue e Letterature straniere alla Bocconi, il celebre vivaio per i futuri protagonisti della vita finanziaria e industriale, Dopo gli studi, ecco subito un impiego importante nelle pubbliche relazioni.

 

Fu a Hong Kong, dove si trovava per lavoro, che avvenne la svolta decisiva, come mi racconta: «Ero profondamente infelice, ma avevo timore ad approfondire una vocazione che sentivo crescermi dentro. Ero, tra l'altro, innamoratissima di un uomo; dunque, cercavo di sottrarmi, di sfuggire a una voce interiore che mi diceva di seguirla. Una sera, ero su uno dei battelli che collegano tra loro le isole di quel gran porto cinese, allora ancora britannico. Vidi una signora americana che, seguendo un costume cinico dei ricchi turisti, si divertiva a lanciare monete a dei ragazzini che nuotavano attorno al traghetto. Capii di colpo, con forza irresistibile, che dovevo dedicare la mia vita ad aiutare i poveri».

 

Scontata, ovviamente, l’obiezione: se questo era il suo desiderio, perché scegliere la clausura e non la vita religiosa in una Congregazione o in un Ordine dedicati all'impegno attivo? Pronta la sua risposta: «Volevo vivere totalmente per Lui e sapevo che, solo per mezzo di Lui, avrei aiutato ogni povero nel modo più radicale, più efficace. Ho capito che la vita di preghiera è, nel paradosso della fede, il lavoro più sociale: andando fisicamente in missione sarei stata meno presente ai bisogni di tutti i fratelli del mondo».

 

Una verità evidente, nella prospettiva del credente: anche se oggi persino tra i cristiani molti sembrano averla smarrita, e danno l'impressione di non comprendere più la fecondità misteriosa ma oggettiva della vocazione contemplativa. Del resto, non si dimentichi che due sono coloro che la Chiesa ha proclamato patroni delle missioni: un uomo, san Francesco Saverio; e una donna, quella piccola Teresa che sul campo missionario non scese mai, ma che, chiusa nel suo monastero di Lisieux, testimoniò la fecondità della nuda preghiera.

 

Sta di fatto che questo «scandalo e follia» della «inutile» orazione che diventa forza irresistibile fu ben chiaro nella chiamata della giovane lombarda. La quale difatti, nel 1978, tra le proteste costernate dei familiari e la sorpresa di amici e colleghi, bussava alla porta dell'Ordine di claustrali la cui vita è contrassegnata dalla «altissima povertà», per usare l'espressione della Fondatrice stessa. Eppure, come leggo in una vecchia pubblicazione che rispecchia un tempo in cui il prestigio nobiliare contava, proprio tra le Clarisse vissero tra le altre, spesso santamente, «più di 150 principesse ».

 

Suor Chiara Stucchi ormai da tempo è «Madre»: infatti, è badessa di questa storica casa di Cortona, fondata ancora nei tempi mitici ed eroici del francescanesimo. Il luogo, chiamato Poggio, è di struggente bellezza, come tutto, o quasi, in questa Italia profonda. Qui, poi, in questa città dalle ripide vie arrampicate su un colle, non nacque solo Luca Signorelli. Da qui venne o qui lavorò una folla di altri artisti eccelsi: Giuliano da Sangallo, Pietro da Cortona, Francesco di Giorgio Martini; oltre al Beato Angelico, che lasciò in questi chiostri alcune delle sue pitture incantevoli.

 

Bellissimo anche, pur nella fedeltà a quanto di austero esige la povertà, il monastero delle francescane, munito di una foresteria della quale io pure ho approfittato: l'ospitalità è tra le fonti di sostentamento della Casa, assieme a lavori di segreteria e di redazione per la famiglia francescana.

 

Povere, ma evidentemente, da buone toscane, amanti del gusto sicuro ed elegante, le Clarisse del Cinquecento che commissionarono il progetto di questo monastero nientemeno che a Giorgio Vasari. Nei secoli si susseguirono incendi, distruzioni, confische, soppressioni; poi, il ciclone ecclesiale degli ultimi decenni, che ha provocato emorragie in tanta vita religiosa. Qui, però, al Poggio di Cortona, le monache sono ancora ventuno, più una postulante, e due terzi di loro sono sotto i cinquant'anni. La più giovane, di anni ne ha solo poco più di venti.

 

Per tornare a madre Stucchi: oltre che badessa del suo monastero, è presidente della Federazione delle Clarisse di Toscana, nonché coordinatrice delle presidenti delle nove Federazioni italiane. É dagli anni Cinquanta che, per iniziativa di Pio XII, i monasteri - pur non rinunciando alla tradizionale autonomia - si sono «federati» per meglio provvedere alle necessità comuni. Per i suoi ruoli nell'Ordine, dunque, la «bocconiana» fattasi claustrale è in uno dei migliori osservatori per conoscere la vita delle contemplative, i loro problemi, le possibili prospettive.

 

Riprenderò, qui, alcuni dei temi del nostro colloquio. Per quanto mi riguarda, l'incontro con questa donna al contempo energica e affabile mi ha confermato in quanto già sapevo o intuivo per esperienza. In effetti, ho curato per anni su un giornale - aderendo a un'Opera di laici torinesi che si occupa di assistenza alle claustrali in difficoltà economica - una rubrica che segnalasse alla generosità dei lettori le esigenze spesso drammatiche di tanti monasteri. Conosco, dunque, una realtà che, per sua stessa natura, è celata nella penombra.

 

So che certa retorica, magari un po' dolciastra, non rispecchia la realtà: anche dietro le grate (quando ancora sono conservate) la condizione umana deve fare i conti con la caduta di Adamo; e pure con quella di Eva, s'intende...

 

« I problemi, talvolta le tensioni, esistono anche tra queste mura », mi conferma madre Chiara. «Noi donne », dice con un sorriso un po' complice e ironico, «siamo tenere e contorte. Qualche volta mi viene da invidiare il temperamento più "grezzo" ma più lineare degli uomini! Un ambiente chiuso fa da cassa di risonanza che ingigantisce gli echi. Dobbiamo poi fare i conti con quella che io chiamo la fragilità endemica delle giovani di oggi, anche di quelle che bussano alla nostra porta».

 

Nessun'enfasi e nessuna idealizzazione della vocazione che dimentichi il sano realismo cristiano, dunque. Ma è lo stesso realismo che porta noi, che siamo «fuori», a riconoscere che non c'è credente che possa guardare senza ammirazione e senza gratitudine a queste donne che hanno detto sì a una chiamata tanto esigente.

 

Non è retorica, ma verità, che esse sono davvero «nel cuore della Chiesa» e che soltanto nell'Aldilà ci sarà dato di scorgere quanto sia prezioso per il mondo intero il loro servizio di preghiera, di rinuncia, di sacrificio, di nascondimento.

 

Di questo, ovviamente, madre Stucchi - non a caso novizia a trent'anni, giungendo da molto lontano - è ben consapevole, pur nella doverosa umiltà. Ma, proprio per amore della chiamata che ha coscientemente accettato, non nasconde osservazioni critiche all'attuale situazione.

All'inizio dell'estate dei 1999, la pontificia Congregazione per gli istituti di vita consacrata ha pubblicato il documento Verbi sponsa: cioè una «Istruzione sulla vita contemplativa e sulla clausura delle monache». Il documento era molto atteso, soprattutto dopo le indicazioni del Sinodo del 1994 dedicate alla vita consacrata e il relativo documento postsinodale del papa. Ebbene: con evangelica franchezza, da molti ambienti monastici sono giunte osservazioni critiche che non sono affatto un mistero, avendo trovato posto nei giornali religiosi. Parlarne, dunque, non è una indiscrezione.

 

La parte più estesa della Istruzione vaticana era dedicata proprio alla clausura, come s'indicava sin dal titolo. Bisogna sapere che proprio le Clarisse sono le sole monache ad avere la clausura come voto, da aggiungere ai tre tradizionali dello stato religioso: povertà, castità, obbedienza (gli storici, comunque, fanno notare che questa specificità per le Clarisse fu decisa solo dopo la morte di santa Chiara).

 

Quando, dopo l'ultimo Concilio, iniziò il dibattito per il rinnovamento delle norme, le monache si interrogarono sul mantenimento o meno del voto. Prevalsero quelle favorevoli alla Tradizione. Ma l'orientamento generale era comunque per un aggiornamento del modo di praticare, pure nella partecipazione alla liturgia, quella «chiusura» fisica che fu stabilita e resa sempre più impenetrabile lungo i secoli; anche (seppure, ovviamente, non solo) per motivi pratici di protezione delle monache, per timori di accesso da parte di estranei, per evitare ogni «tentazione», nella severa prospettiva morale dei secoli che ci hanno preceduto.

 

Ciò che religiose come madre Stucchi vorrebbero è la riscoperta che il proprio della contemplativa è una «clausura del cuore»: quella delle grate e dei portoni sbarrati non dovrebbe essere che «uno strumento, un segno». Così mi dice madre Chiara, che aggiunge: «Se circostanze storiche e politiche ci mettessero nella condizione di non vivere in clausura, resteremmo egualmente monache contemplative ». É successo, ad esempio, nei Paesi dell'Est europeo, durante la persecuzione comunista.

 

La «contemplazione », appunto: secondo il recente documento ecclesiale, questa non solo sarebbe favorita dalla clausura (cosa che anche la nostra Sorella accetta) ma da essa in qualche modo dipenderebbe, tanto da proporre una «spiritualità della reclusione» che ha precedenti illustri nella letteratura ascetica, ma che ora molte religiose giudicano non abbastanza fondata sul piano teologico. Il dibattito, insomma, gira attorno a termini come «anacronismo», «legalismo», se non «pessimismo antropologico»: nel senso che non si avrebbe sufficiente fiducia nella capacità delle claustrali di vivere fino in fondo la loro vocazione anche in una prospettiva più aperta, che superi la separazione fisica tradizionale.

 

Attualmente, l'uscita dal monastero è concessa per motivi di salute, per votare, per pochi altri impegni inderogabili. Anche le novizie, però, dovrebbero poter uscire per recarsi in luoghi stabiliti per la loro formazione dalla Federazione. Ma pure su questo c'è difformità tra quanto raccomanda la Congregazione romana e quanto segnalano le monache: l'impossibilità, cioè, per i monasteri, di provvedere da soli a quella formazione, impedendo le uscite delle giovani (o meno giovani: le «vocazioni adulte» sono sempre più numerose), ma impedendo anche che siano formate in modo adeguato.

 

Insomma, forse con qualche ritardo rispetto ad altri ambienti religiosi, anche nel mondo claustrale - come mi testimonia madre Chiara - è in corso il travaglio epocale della Chiesa: il tentativo di conciliare tradizione e attenzione ai segni dei tempi, fedeltà al carisma originario e adeguamento alle nuove condizioni sociali e culturali. Non si pensi, peraltro, a un clima di contrapposizione quasi «sessantottino». Da parte dell'autorità gerarchica e da parte delle monache (quelle, almeno, che desiderano cambiamenti: e non sono tutte, altre preferendo il più possibile conservare), da entrambe le parti, insomma, ci sono la stima e l'amore per una vocazione preziosa che tutte e tutti desiderano non solo salvare ma favorire al massimo.

 

Mi dice questa badessa di Cortona: «Vorremmo testimoniare nella maniera più limpida ed evidente, con la nostra vita stessa, almeno tre realtà: Dio c'è, Dio ci ama, amarsi tra noi è possibile». E quando le chiedo come si muoverebbe se toccasse a lei tracciare le linee per la riforma della vita claustrale, risponde: «Cercherei di far girare ogni cosa attorno alla gioia della Risurrezione e alla gioia della scoperta di essere tutti fratelli già in questa vita e tutti chiamati, insieme, alla vita eterna». Un cambio, aggiunge, anche di vocabolario, come segno di un cambio di prospettiva: «Occorrerebbe non parlare più di rinuncia, ma di dono e di solidarietà, a proposito dei nostri voti di religione: casti con chi, non per sua scelta, è solo; poveri con chi non ha nulla; obbedienti con chi non ha libertà e deve sempre e comunque obbedire ».

 

É, forse, in questo tendere al meglio - sperando contro ogni speranza - che stanno la forza e il fascino di una scelta di vita che i secoli non sono riusciti e non riusciranno a spegnere. E che continua a trasmettere non solo nel tempo, ma anche nello spazio, la fiaccola accesa su queste colline da Francesco e Chiara: il monastero di Cortona ne ha fondato un altro, in Nigeria, dove madre Stucchi si reca periodicamente.

 

La nuova casa, mi dice, è come assediata dagli africani, sia cristiani che musulmani: accorrono li perché, con il loro istinto di gente naturaliter religiosa, avvertono che da lì sale il profumo della preghiera e della contemplazione del mistero del Divino.